Engin Akyürek

Il 23 maggio scorso Netflix ha finalmente rilasciato la pellicola “Yolun Açık Olsun”.

Il film, prodotto da Lanistar Media in collaborazione con il colosso dello streaming, è stato girato la scorsa estate da Engin Akyürek e Tolga Sarıtaş è l’adattamento del romanzo scritto da Hakan Evrensel, ed aveva suscitato non poca curiosità, sia per il valore dei due protagonisti che per l’argomento trattato.

Il film, infatti,  parla del disturbo da stress post traumatico, ossia uno dei disturbi più frequenti che si manifestano nelle società che hanno una forte attitudine militare e la Turchia, indubbiamente,  è una nazione a forte vocazione militare, sia per le vicissitudini legate alla recente guerra siriana, sia perché dentro i confini turchi c’è un atavico problema rappresentato dalle rivendicazioni curde che vedono le forze armate turche in perenne stato di all’erta nel sud est del paese e,  soprattutto perché, cosa per lo più ignota a molti, quello di Ankara è il secondo contingente NATO per numero di effettivi, dietro solo all’esercito degli Stati Uniti.

In questo dramma introspettivo, Engin Akyürek interpreta il Capitano Salih che ha perso una gamba per essere incappato su una mina antiuomo durante un’operazione. La prima cosa che notiamo di lui è la meticolosità con cui lucida la propria scarpa prima di indossare la sua protesi. Salih, fuggito dalla clinica dove sta affrontando la riabilitazione, è in procinto di partire per un viaggio, con la macchina d’epoca appartenuta a suo padre, in compagnia del guardiamarina Kerim. Obiettivo del viaggio è quello di impedire il matrimonio di Elif, amore mai dimenticato da Kerim.

Una delle peculiarità del disturbo da stress post traumatico sono i continui flashback che definiscono le giornate dei veterani di guerra a cui “viene riconosciuto solo un abbonamento dei trasporti”. E nel film, i flashback scandiscono anche il racconto.

Vediamo infatti la difficile convalescenza di Salih, sempre accompagnato dall’amorevole Duygu che pur di accudire l’uomo della sua vita non si risparmia di urlare rabbiosamente a dei genitori che la vorrebbero sciolta da un vincolo con un menomato pazzoide che la sua famiglia adesso si trova su quel divano dove c’è il nostro Engin inerme, in uno stato di totale straniamento, completamento privo di quella vitalità con cui siamo abituati a vederlo.

Engin è magistrale nell’interpretazione della malattia mentale, riesce a trasmettere il totale smarrimento, la sofferenza e la sconfitta tipica di chi vuole arrendersi alle vicissitudini dell’esistenza, a chi sta pensando seriamente di lasciarsi andare perché trova di non avere più le forze per reagire ma, anche questa volta Duygu sarà al suo fianco, riportandolo violentemente alla realtà, rappresentando l’ancora a cui aggrapparsi e il motivo per cui restare tra i vivi perché lei è la sua unica amica.

Nel viaggio intrapreso da Salih e dal guardiamarina Kerim c’è il percorso di due amici che, come spesso accade, sono tali perché la vita e le sue brutture li ha uniti ed insieme si sono aiutati a “tenere botta”. Sono molteplici i flashback che ci riportano al fronte e che ci spiegano cosa voglia dire essere militari, ossia essere ragazzi che scelgono di arruolarsi per compiacere il proprio suocero ed essere finalmente degni di ricevere il permesso di sposare il proprio amore, essere degli individui programmati per reggere lo stress che deriva dalla consapevolezza di morire da un momento all’altro ma che non riescono a mantenere la lucidità necessaria davanti alla foratura di uno pneumatico.

Tra scorci paesaggistici che mozzano il fiato di una Turchia rurale e a tratti selvaggia, esaltata da una fotografia così calda da regalare un velo dorato ad ogni fotogramma, i due compagni di viaggio macinano chilometri, vivono emozioni e incontrano personaggi che, a ben vedere, ci aiutano a capire la realtà che si cela dietro questo struggente racconto.

Salih, in un impeto di ribellione, ruba una pernice e la salva da morte certa, dopo averla portata con sé per buona parte del percorso decide di liberarla in un bosco ma, purtroppo, la pernice non riuscirà neppure a spiccare il volo, verrà uccisa in un battibaleno da due cacciatori, ma il capitano la porterà ugualmente con sè per il resto del viaggio per ricordarci che lui non riesce proprio a lasciare andare.

Una delle scene per me più rivelatrici è quella della cena al ristorante, in tv passano le immagini di una cerimonia di Stato organizzata per tributare il giusto commiato a dei militari morti in battaglia. Nel ristorante gremito nessuno degli avventori presta la dovuta attenzione alle immagini che vengono trasmesse, tutti sono intenti a conversare, mangiare, guardare i propri cellulari, nessuno è capace di fermarsi a riflettere sul significato di una vita sacrificata in battaglia e trovo ciò drammaticamente attuale e angosciosamente reale.

Viviamo immersi in una società in cui la guerra è normalizzata, vicina ma inesorabilmente lontana. Viviamo preoccupandoci costantemente solo del nostro orticello e ci rifiutiamo di guardare il mondo e le circostanze che lo muovono con un minimo di lungimiranza e di visione di insieme; per questo la guerra non ci preoccupa, perché la vediamo lontana dalle nostre case, dalle vie in cui di solito passeggiamo, lontana dai posti che amiamo e perché, banalmente, quei morti in battaglia non sono i nostri figli, amici, compagni, parenti o anche solo conoscenti e quindi ci permettiamo il lusso di voltarci dall’altra parte quando le nostre tv passano quelle stesse immagini. Viviamo tra i fortunati della terra e io in quella scena ci ho visto una delle critiche più lucide alla società occidentale che relativizza troppo e non prova più un moto di stupore o reale indignazione per niente.

Una volta giunti a destinazione, Salih, riesce ad evitare il matrimonio rapendo Elif, una volta in macchina quello che è stato il presentimento che mi ha accompagnato per gran parte del film diventa una cruda realtà.

Infatti, Kerim è morto, è uno dei martiri morti in battaglia e quello che ha accompagnato Salih in tutto il viaggio altro non è che una proiezione.

Kerim è morto per i postumi di una ferita in battaglia, è morto perché Salih lo ha colpito per sottrarlo ad un guerrigliero.

 Kerim è morto e Salih, in una corsa disperata verso l’amico e sottoposto, salta su una mina e perde la sua gamba.

Kerim è morto e Salih è intrappolato in un senso di colpa che lo stritola, talmente tanto da convincerlo a suicidarsi mentre accompagna il suo amico nel suo ultimo viaggio ma ancora una volta Duygu riuscirà a strapparlo dalla morte e a riportarlo tra i vivi, con la notizia di una nuova vita che si nutre dentro di lei e lì Salih troverà la forza di perdonarsi, consapevole che chi amiamo davvero quando muore non se ne va ma si trasforma diventando un bagliore nel cielo, un profumo che insensatamente avvertiamo quando entriamo in una stanza, una mano che si posa sulla nostra spalla ogni volta che abbiamo bisogno di forza o di conforto.

Alice

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11 Comments

  1. Un dramma nel dramma già contenuto nella definizione “disturbo” post traumatico da stress-un termine che personalmente trovo inappropriato, quasi a sminuire la tragedia che ha accompagnato innumerevoli reduci delle guerre…quelli tornati vivi: Vivi? Forse…bisogna chiarirsi sul concetto di vivo. A proposito attualmente nel mondo ci sono 59 guerre.

    1. Esattamente, in posti talmente tanto remoti che i media decidono di non occuparsene… è questo che più odio, il fatto che tutto sia sempre di serie a e di serie b

  2. Camelia Antonietta

    Complimenti Alice belle riflessioni ,Engin strepitoso sempre di più, un film che parla di un dolore intimo seppur provocato da una delle più grandi tragedie che l’ uomo provoca davanti ad una platea immensa e spesso indifferente sembra quasi che vivere o morire per chi è in guerra sia la normalità.

    1. Già e questa indifferenza fa tanta tanta paura

  3. Una analisi fatta bene ho avuto i brividi come se stessi rivedendo il film condelle delucidazioni ancora piu profondi grazie
    Alice bravissima

    1. Grazie, davvero di cuore!

  4. Complimenti Alice. Bellissima analisi. E’ difficile lasciare andare chi hai amato, è lacerante. Ogni partenza definitiva è un lutto. Perchè sappiamo, lo avvertiamo che la sua presenza sarà sempre nella nostra vita. Palpabile o meno, ma ci sarà. Quello che è difficile, è superare il vuoto fisico di quella persona. Sostituirlo con i ricordi, con le emozioni belle che ti ha dato. Quando raggiungi questo equilibrio, allora sì, sei pronto per lasciarlo andare e ritornare alla vita.

    1. Già anche se a volte è veramente difficile lasciare andare, spesso si ha tanta paura nel dimenticare qualcuno semplicemente perchè, col tempo, si diventa allenati al dolore

    2. Edda hai perfettamente ragione! Ne so qualcosa Complimenti ad Alice per la sua bellissima analisi

  5. Cara Alice, mi trovo d’accordo con te su tutto quello che hai scritto. Come sempre Engin sceglie ruoli che vanno al di là della semplice interpretazione, che è sempre un onore guardare. Con questo personaggio ci ha voluto raccontare il senso di colpa, il fallimento, e la guerra. La guerra raccontata non per le ragioni, ma per le sue conseguenze sulle singole persone. Brava Alice

    1. Esatto, conseguenze che sono sempre troppe per chi viene dimenticato dopo il congedo.

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