Adım Farah Engin Akyürek

Non, non è un errore. Nel titolo uso volutamente la parola Cinema: non vi sembri scelta inopportuna e impropria, proverò a spiegare la mia opinione. Sarà lunga, ma spero interessante 🙂

Dunque, Adım Farah è sì una serie tv, un prodotto nato per la televisione e dunque provvisto delle caratteristiche proprie della serialità, ma è soprattutto -a mio avviso – un lavoro artistico che rispetta lo schema del cinema narrativo, ovvero la centralità della storia narrata con il ricorso a codici propri del cinema.
Penso ad esempio, prendendo come spunto l’episodio 19, alle sovrapposizioni sonore dei dialoghi che tormentano Tahir convinto di aver perso il piccolo Kerimşah che lo ha appena cacciato via, con un qui e ora in cui Tahir vive tutto il dolore per ciò che è appena successo, amplificato nella sua resa drammatica dalla sovrapposizione delle voci di Behnam e di Mehmet che si alternano come in un incubo sonoro: Tahir si sente messo alle strette, la sua rabbia infatti esploderà.
Ma penso anche al ricorso ai flashback che interrompono il fluire temporale degli eventi per aggiungere significato agli stessi e fornire a noi che guardiamo ulteriori elementi di comprensione (e di commozione).
O, ancora, alla trama scandita da avvenimenti che nel loro succedersi danno struttura alla “narrazione forte”, nella quale l’azione cruciale dei personaggi subisce una trasformazione che fa evolvere il racconto in qualcosa di nuovo: il risultato è un equilibrio tra struttura narrativa orizzontale (la storia che si sviluppa in molti episodi, caratteristica delle serie) e struttura verticale, avvenimenti cioè che maturano e si concludono molto più velocemente rispetto ai tempi lunghi delle dizi classiche e questo conferisce ad AF un ritmo decisamente diverso.
Per non dire, dell’alternanza del campo e controcampo nei dialoghi chiave della serie, come quello tra Tahir e Mehmet al ristorante nella stagione 1 (quando Tahir aveva ricevuto l’ordine da AGA di farlo fuori):la macchina alterna i primi piani dei due personaggi e l’inquadratura alla pistola sotto al tavolo,  crea un dialogo visivo, dà il ritmo alla scena, ne sottolinea la dinamica emotiva e il diverso stato d’animo dei due, crea la suspense per ciò che potrebbe accadere.
O ancora, tornando all’episodio 19, il brevissimo dialogo fra Bekir e Tahir che ci rivela che i due erano d’accordo, dopo averci fatto dubitare che Bekir, pur sempre un Akıncı, avesse “venduto” Tahir: la scena sullo sfondo rosso (come quella del ristorante con Mehmet…) si svolge in pochissimi secondi, campo e controcampo, Tahir e Bekir, uno scambio di battute veloci e poi la risata liberatoria di Tahir: “Ben fatto Akıncı” che conclude verticalmente la scena iniziata a casa di Tahir, con l’invito a pranzo nel quale propone l’accordo per recuperare il codice di accesso della cassaforte dove è conservata la chiavetta con cui Behnam ricatta Farah.  Un altro flashback ci spiegherà dopo qualche minuto i termini di quell’accordo.

SCUOTERE LE EMOZIONI
Ennio Flaiano definì il cinema quale “unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile”, in realtà il cinema, la fiction, la narrazione per immagini, “muovono” lo spettatore eccome e per dirla con una grande del Cinema come Ingmar Bergman: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. Ecco dunque perché Adım Farah, per me, è da paragonare al Cinema. Ed ecco, perché, torno a scriverne, dopo un periodo di silenzio meditativo. Non perché la seconda stagione sin qui non mi sia piaciuta, al contrario. Ho trovato ogni singolo episodio congruente, convincente, emozionante, con una logica che ne ha segnato l’inizio e la fine, lasciando sul finale uno spunto narrativo e una collana di dubbi, di se e di ma, di domande, funzionali a tenerci incollate allo schermo e a desiderare l’episodio successivo.
Ma stavo aspettando, seduta sulla sponda di un fiume immaginario, il ritorno della personalità che, a mio avviso, ha caratterizzato questa meravigliosa serie dal suo primo episodio. Ora sono galvanizzata e scrivo ancora prima di vedere l’episodio 20!

Per forza di cose, i primi capitoli di questa seconda stagione hanno dovuto come prima cosa decisamente cambiare rotta – imprimendo dunque una decisa spinta in avanti per far procedere la narrazione cinematografica – e in secondo luogo farci affezionare alla “nuova” storia coinvolgendoci emotivamente: facendoci indignare dinanzi ai soprusi inflitti a Farah, arrabbiare per le ingiustizie subite dai protagonisti, soffrire per la separazione e l’impossibilità per Tahir e Farah di vivere appieno il loro amore appena trovato. In realtà, la stessa sorte è capitata anche all’altra coppia innamorata della storia, Mehmet e Bade, coinvolta di riflesso da ciò che accade ai due protagonisti principali.  E, proprio a voler essere pignoli, anche Gönül e Kaan sono costretti ad una separazione di cui non riusciamo a cogliere il senso, ma quasi certamente a prevederne l’evoluzione. Ma torno al ragionamento.

Aspettavo   – certissima che accadesse – che AF tornasse al suo profilo originario, al suo non essere una dizi di intrattenimento fedele ai canoni delle dizi tradizionali, quanto piuttosto una serie di denuncia e sensibilizzazione, che pone la storia d’amore e gli intrighi connessi, non come centro della narrazione, quanto piuttosto come espediente, quasi elemento collaterale per dire altro, per porre l’accento su altro, per veicolare un’alterità concettuale, con una apparente incidentalità. Chi mi ha già letto sa che ho abbondantemente scritto su questo aspetto, sottolineando il valore universale della storia benché parlasse  – e parli – apparentemente “solo” di Farah e di Tahir.
Non ritengo che questo ritorno sia dovuto al cambio degli sceneggiatori, sarebbe accaduto comunque.  Ma sicuramente il cambio imprimerà uno stile e un ritmo narrativo differente, come abbiamo già assaporato nell’episodio 19.

Dunque, la personalità della serie. 
Una chicca la frase di Tahir sulle donne, utilizzata per celebrare il centenario della Repubblica di Turchia. Già durante la visione dell’anteprima dell’episodio 19 mi sono entusiasmata nel riconoscere la potenza sovversiva di frasi che potrebbero sembrare addirittura contradditorie. Tahir dice: “Questa è la Turchia. Le nostre donne non chinano la testa, ti guardano dritto negli occhi e stanno in piedi. Qui si può indossare ciò che si vuole, nessuno può interferire. Ed è così da 100 anni”.  Da quando cioè Mustafa Kemal ha portato a compimento il processo che portò alla nascita della Repubblica di Turchia, dimostrando doti di grande statista, oltre che di valoroso capo militare, tanto da essere considerato – ancora oggi – un eroe nazionale.
Veniamo all’affermazione, di una forza concettuale fortissima, per chiederci retoricamente: è proprio così? Certo che no. Purtroppo, aggiungo. E non solo in Turchia.
Personalmente ci ho colto una funzione incitante in questa affermazione, che vuol essere dunque sprone, incoraggiamento, spinta al cambiamento.  Una esortazione a crederci, a credere che ciò sia possibile. E che una esortazione del genere giunga da un prodotto di cultura popolare e non d’élite, quale può essere una serie tv, accresce a mio avviso la forza propulsiva del messaggio stesso, il suo voler essere motore per spingere una rivoluzione culturale attesa e legittima. 

LE DONNE E LA RIVOLUZIONE CULTURALE
Un’affermazione, quella di Tahir che si potrebbe anche interpretare come un “parlar a nuora perché suocera intenda”, tanto più dopo la fuoriuscita della Turchia dalla “Convenzione di Istanbul”, il trattato internazionale vincolante di più ampia portata sul tema della lotta contro la violenza sulle donne, nato nel 2011 in seno al Consiglio d’Europa (organismo allargato a 47 Stati membri, non solo europei). Un accordo “vincolante” (se ne fai parte devi adeguare le tue leggi interne) nato con l’obiettivo di prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire penalmente gli aggressori. Con la Convenzione, per la prima volta la violenza sulle donne viene definita una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione, stabilendo che lo Stato che non adotta misure sufficienti va ritenuto responsabile di violenza stessa.

I reati inclusi nella Convenzione di Istanbul vanno dalla violenza psicologica agli atti persecutori e stalking, alla violenza fisica, sessuale, al matrimonio forzato, alle mutilazioni genitali femminili, all’aborto e sterilizzazione forzati, alle molestie sessuali.  Si comprende bene la portata storica di questo accordo. Al momento della ratifica la Turchia era tra i più convinti sostenitori del trattato, che infatti fu firmato proprio a Istanbul, quale ideale ponte geografico e culturale tra Europa e Asia, tanto da essere stato il primo paese a ratificare la Convenzione.  Dopo appena nove anni però, nel 2020, il presidente turco Erdoğan ha firmato il decreto di revoca della Turchia, poiché – questa la motivazione data – il trattato “minaccia i diritti della famiglia”.
Una parentesi storica che ritengo doveroso richiamare, per evidenziare ancora di più la forza delle affermazioni di Tahir Lekesiz.

L’ARTE E LA FORMAZIONE DELLE COSCIENZE
E dunque: può l’arte smuovere le coscienze, andando oltre al suo aspetto puramente estetico e addirittura di intrattenimento? Certo che sì.
Per dire di quanto e come l’Arte possa svolgere questo ruolo sociale e sovversivo, di miccia per il cambiamento, di formazione delle coscienze, mi sposto altrove e prendo ad esempio “La Guernica” di Picasso, capolavoro del XX secolo e simbolo mondiale di pace.
Conoscendone la storia, ho trovato delle singolari similitudini, con le ovvie, dovute e necessarie differenze.

Artribune

Questa tela gigantesca (3,49 x 7,76 m) e insolita per i canoni dell’epoca, fu dipinta nel 1937 e prima di giungere al Museo Reina Sofia di Madrid, dove si trova oggi, ha vissuto un percorso “travagliato”.

Dunque, Picasso era già un artista di fama quando riceve dalla Repubblica Spagnola l’incarico di realizzare un’opera murale per decorare il padiglione della Spagna all’Esposizione Universale del 1937 a Parigi. Le Esposizioni erano delle “fiere” allestite nelle principali città del mondo nelle quali si metteva in mostra l’evoluzione scientifica, tecnologica e culturale e le peculiarità dei Paesi.
Picasso, che non viveva più in Spagna da qualche anno (e non ci sarebbe più tornato) ma a Parigi, accetta l’incarico ma inizia a rilento a lavorarci, probabilmente in attesa di una spinta ispiratrice.  
Il 26 aprile del 1937 viene bombardata e rasa al suolo la città basca di Guernica in Spagna: un avvenimento che sconvolge la coscienza di molti intellettuali dell’epoca, di fatto fu il primo bombardamento sui civili della storia.
Picasso decide: l’opera a cui sta lavorando per l’EXPO avrebbe raccontato il massacro e le vittime di Guernica. In questa cittadina spagnola era particolarmente attiva la resistenza per affermare la Repubblica, mentre il Paese era dilaniato da una guerra civile che vede repubblicani, socialisti, comunisti e anarchici combattere contro i nazionalisti di Francisco Franco, che spingeva per instaurare la dittatura (riuscendoci nel 1939). Al fianco di Francisco Franco interviene l’aviazione tedesca e italiana: per due ore ininterrotte le bombe continueranno a cadere su Guernica, fu un vero massacro. Ecco perché Picasso decide di dedicare questa grande operare muraria alle vittime di Guernica.   
Un’opera che però non fu accolta subito con successo. Non fu compresa a causa del suo stile “troppo moderno”, distante dai canoni della pittura dell’epoca, come ad esempio “Aviones negros” di Horacio Ferrer de Morgado.

Aviones negros, dal sito del Museo Reina Sofia


La critica, però, cominciò a parlarne talmente bene che Guernica iniziò a fare letteralmente il giro dei musei di tutto il mondo, conquistando un successo straordinario. Guernica fu anche inviata negli Stati Uniti per raccogliere fondi destinati ad aiutare le vittime della guerra civile spagnola.
Pur appartenendo allo Stato spagnolo, Picasso dispose che Guernica sarebbe rimasta al MoMa (Museum of Modern Art di New York.) finché in Spagna non fossero state ristabilite le libertà repubblicane. Nel 1968, a sorpresa, Franco reclamò – invano – la restituzione del quadro, scatenando non poche polemiche. Guernica è tornata in Spagna nel 1981, dopo la morte del dittatore (1975) e solo dopo lo svolgimento di regolari elezioni.
Guernica ha rappresentato graficamente un grande messaggio sulla efferatezza della guerra e le sue dimensioni ne amplificano certamente il potente messaggio: trovarsi di fronte all’opera, vi assicuro che è un’esperienza emotiva fortissima.  Con questo dipinto Picasso, dunque, assume una posizione politica che segnerà molti artisti contemporanei, i quali useranno l’arte per esprimere il proprio dissenso nei confronti della Seconda Guerra Mondiale.

IL MANIFESTO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE
Con un parallelo – e con le dovute differenze e proporzioni – potremmo considerare AF il manifesto popolare e contemporaneo contro la violenza di genere.
Non mi addentro sulle ragioni per cui Adım Farah non è premiata come meriterebbe dal rating turco. Un discorso complicato, che non sarei in grado di fare. Ma posso auspicare che come Guernica, anche Adım Farah dopo aver concluso il giro del mondo, che ha già iniziato a fare con enorme successo, possa essere accolto come merita anche in patria. Per quanto sia convinta che la misurazione del rating lasci il tempo che trova.  
Ma ciò che auspico è soprattutto che faccia attecchire e crescere in chi la guarda e la guarderà i germogli di una nuova visione del mondo e della donna.
Che anche Adım Farah possa considerarsi un lavoro “monumentale” è fuori dubbio: per cast, regia, fotografia, costumi, scenografia, musiche…recitazione!  Così come il fatto che denunci una guerra in corso: quella contro le donne.  Non ha importanza la scelta dell’Iran e della cultura iraniana per mettere in evidenza le differenze  tra Paesi, la storia di Farah è universale. Lo è nella misura in cui parla e rappresenta un problema che accomuna – ahimè – tutti i Paesi del mondo. Occidente compreso.

I DATI MONDIALI
Due milioni di donne in 161 paesi: questa la stima emersa dallo studio comparativo a livello internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2022) che ha messo in evidenza come più di un quarto della popolazione femminile tra i 15 e i 49 anni ha subito violenza fisica dal partner maschile. Violenza che spesso degenera restituendoci la fotografia di una vera e propria mattanza: in base al rapporto delle Nazioni Unite, nel 2021 ogni ora cinque donne hanno perso la vita per mano di un membro della famiglia.

Per stare al nostro paese, l’Italia, sono raccapriccianti di dati pubblicati dal Ministero dell’Interno qualche giorno fa (6 novembre 2023): dal 1 gennaio al 5 novembre 2023 sono stati registrati 282 omicidi, con 101 vittime donne, di cui 82 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 53 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner.  Tradotto: ogni giorno sono morte 10 donne.
Siamo o non siamo in piena guerra?
Serve o non serve un cambiamento culturale forte, fortissimo, che ristabilisca il rispetto fra i generi?
Un cambiamento che chiama in causa tutti, ma proprio tutti. L’ambiente familiare in primis, che è il primo e il più importante per la trasmissione di valori e comportamenti (e l’anteprima dell’episodio 20 ci mostra esattamente questo…).
Ecco, allora, come ogni singola espressione dell’attività umana, compresa l’arte e l’industria culturale, possa (e debba) svolgere un ruolo chiave nell’accompagnare, spingere, accelerare un cambiamento che non possiamo più rimandare. Possa smuovere le coscienze, indurre una riflessione attraverso il coinvolgimento emotivo che regala il cinema, la recitazione, la fiction.  
Perché le emozioni non sono solo il sale dell’esistenza, ma hanno il potere di stravolgerla, sono la password per accedere al nostro subconscio. Guardando un film, una serie, una dizi, è come se vivessimo esistenze altre, che non ci appartengono, ci immedesimiamo in personaggi che nella realtà non esistono, facciamo nostri i loro travagli, le loro gioie, i loro obiettivi perché proviamo empatia. Le emozioni ci portano nel nostro subconscio, instillano un’idea: e non è forse con le idee che si può cambiare il mondo?  Un film, una serie tv, ci permettono di vedere la vita attraverso una lente diversa, hanno il potere di farci commuovere, guidarci, educarci e cambiare il nostro piccolo mondo individuale in meglio. 

DEMET ED ENGIN
I due attori principali della serie Demet Özdemir ed Engin Akyürek ancora una volta attraverso il loro lavoro hanno vestito i panni di un impegno civile a cui non sono nuovi.  
Penso a Demet e al suo ruolo di Zeynep in “Doğduğun Ev Kaderindir” (La Tua Casa è il Tuo Destino) serie ispirata ad una storia vera, narrata nel romanzo “Camdaki Kız” (La ragazza allo specchio) di Gülseren Budayıcıoğlu nella quale è forte il messaggio contro la violenza di genere. Iconica la scena in cui sfascia con un martello la porta di casa che il marito aveva chiuso a chiave per impedirle di andare a lavorare.
E penso a Fatmagül’ün Suçu Ne? nel quale un giovanissimo e perfettamente in parte Engin nel ruolo di Kerim insieme a Beren Saat danno vita ad una serie capolavoro, anche questa ispirata ad una storia vera, in cui la protagonista è stata vittima di una violenza di gruppo.
Ma penso anche a Kaçış  (e non posso  non evidenziare il colpevole errore di Disney Plus di togliere anche questa serie dal suo catalogo) nata da un soggetto scritto dallo stesso Engin, nella quale alla violenza di genere si aggiunge anche quella sui bambini e la violazione dei diritti che nei territori di crisi diventano veri e propri crimini contro l’umanità.  Nell’anteprima dell’episodio 20 vediamo una scena che ci trasporta subito nel clima di Kaçış, con Tahir che prende per mano un bambino per salvarlo dalle brutture del mondo e che ci conferma ancora una volta il suo impegno, non solo sugli schermi, per i diritti dell’infanzia.

Ecco Adım Farah si inserisce in questo filone narrativo, offrendosi come “veicolo di cultura e proposta di valori”.  Il regista Recai Karagöz, i vecchi e i nuovi sceneggiatori, Demet ed Engin, “piegano” l’arte della recitazione per farne strumento con cui influenzare, condizionare, “formare” il pubblico, con la forza di una rappresentazione che ha un impatto emotivo fortissimo su chi guarda e sul suo subconscio.
Mi fanno sorridere di rabbia (come Tahir) alcuni commenti sulla serie, ma Adım Farah non è un documentario, non è un reportage, non è  un’inchiesta: è un prodotto artistico che ricorre alle emozioni per offrirsi come momento di riflessione. È una fiction, che prende però le distanze dall’essere puro e semplice intrattenimento, dal racconto di vicende più o meno interessanti, più o meno avvincenti, per assumere un valore etico e offrire un suo spunto di riflessione su argomenti “forti” come la violenza di genere, la violazione dei diritti, le ingiustizie. Che non possono lasciare indifferenti.
E lo può fare, riesce a farlo, grazie ad un cast fuori dal comune, da quello tecnico a quello artistico.  Che dire di Engin Akyürek? Se non che sembra essere in uno stato di grazia ed aver raggiunto una maturità sorprendente: incredibile come ad ogni lavoro ci stupisca alzando sempre più l’asticella della sua performance. Credibile, avvincente, coinvolgente, emozionante, affiancato da partner perfettamente in sintonia: da Demet, versatile e brillante che con Farah a mio avviso ha arricchito il suo personale percorso di crescita e maturità sul versante drammatico della recitazione, a Fırat Tanış straordinario nel dar vita al perfetto alter ego di Tahir.   

MENZOGNA E VERITA’
Se come diceva, ancora una volta, Picasso “L’arte è una menzogna che ci permette di svelare la verità”, lo è anche il mondo della recitazione, che segue lo stesso percorso creativo con la “messa in forma” con cui lavora il materiale a disposizione: a partire dal soggetto, per poi arrivare alla sceneggiatura, alla regia, alla recitazione…Ogni passaggio corrisponde a un riscrittura della realtà attraverso i componenti a disposizione: la storia, i personaggi, quegli attori specifici che sono stati scelti.

E ad ogni passaggio, il personale vissuto e la sensibilità umana e artistica dei singoli conferiscono alla realtà che si va riscrivendo un filtro diverso, fino a giungere alla combinazione finale fra percezione e interpretazione, dove realtà e visione si mescolano.

Può, dunque, una serie svegliare le coscienze? Sì.

Ed allora tutte le polemiche – inutili e vacue – non hanno senso. Non ha senso se ci si è allontanati dalla storia La chica que limpia, non ha senso se la stagione 2 è diversa dalla 1, non ha senso attaccare un piccolo attore (una follia!) sono solo bla bla bla…
Non ha senso polemizzare perché si dà una rappresentazione diversa della realtà.  È il cinema, bellezza. E Adım Farah è cinema.  

Ros


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8 Comments

  1. Ros, tu riesci sempre a dare forma compiuta ai miei pensieri sparpagliati …grazie dell’aiuto!

    1. 🙂 grazie a te!!!!!

  2. Complimenti per l’articolo, Adim Farah è una serie a dir poco meravigliosa, Demet e Engin sono il top…. L’unico rammarico sono gli ascolti in Turchia, perché si meritano, si meritano molto di più… (Anche se sta avendo successo in vari paesi del mondo)

    1. Grazie molte cara, si vero avrebbe meritato anche di essere coronata da un rating all’altezza, ma siamo felicisimme del successo mondiale!!!

  3. Camelia Antonietta

    Non posso non farti i complimenti x questo bellissimo articolo su Adim Farah così dettagliato e preciso ,credo tu abbia spiegato tutti motivi per cui valga la pena guardare questa serie al di là della storia in sé.
    Come Adim Farah anche il tuo articolo come sempre offre tanti spunti di riflessione primo tra tutti dare la nostra voce a tutte quelle donne che vengono messe a tacere ❤

    1. Grazie Antonietta, credo che limitarsi alla superficie nel guardarla (che pure, mica male!) sia fare un torto ad un lavoro accuratissimo, di tutti!

  4. Condivido ogni tua parola.Questa serie mi ha colpito fin dal primo episodio. Engin è un attore straordinario che ha la capacità di coinvolgerti e di farti provare ogni tipo di emozione, x esempio nel episodio 18 l’abbraccio con il bambino mi ha commosso tanto. Con Demet ci hanno fatto sognare nella 1 stagione con i loro momenti romantici e anche ora nei flashback mi hanno fatto tanto ridere. Tutto il cast è eccezionale, la trama è sempre avvincente. Ora con il cambio di sceneggiatura non vedo l’ora di emozionarmi quando finalmente verrà svelato il legame di parentela dei due fratelli.Mi immagino Mehmet che si ricorda, grazie all’archivio di Bekir, guardando le foto del padre con Vera e Orhan di averli ospitati e di aver assistito alla sparatoria dei genitori. Metterà Vera alle strette e in qualche momento arriverà Tahir, (dopo aver scoperto che è stata Vera a svelare a Behman dove si nascondeva e x me gli avrà anche detto che voleva aprire la cassaforte x prendere la chiavetta). Vera incalzata da tutti e due, con la pistola puntata contro, gli chiederanno spiegazioni e lei gli dirà che la loro infanzia rovinata è tutta colpa sua e di non uccidersi xke’ sono fratelli e poi ci sarà un bell’abbraccio commovente come in Icerde.

    1. Si sono tutti sviluppo plausibili, ci tocca aspettare 🙂 grazie per il feedback, sono contenta ti sia piaciuto!

Ros

Giornalista freelance, ghostwriter, content editor, sommelier, mi occupo di uffici stampa e comunicazione. Scrivo, leggo, ascolto musica, divoro film e serie tv. Soprattutto turche. Soprattutto con Engin Akyürek. Il mio sogno? Intervistarlo

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