Tahir, Engin Akyürek inventa il cattivo che non c’era

Può un incontro cambiare la tua vita? La cronaca dell’umanità è piena di storie nate dalla scintilla della casualità, che forse a ben vedere tanto casualità non è, se crediamo che il destino possa tracciare percorsi invisibili che conducono al completamento di disegni di cui si ignora l’esistenza.
Con questa lente possiamo leggere gli accadimenti a cui abbiamo assistito nei primi episodi di Adim Farah: la casuale presenza di Farah sul  luogo del delitto e il conseguente incontro con Tahir;  Kaan che scorge  Alp e lo segue, uccidendolo poi nella colluttazione che ne nasce; Farah che si trova nello stesso ospedale dove giungerà Ali Galip in fin di vita, salvandogli la vita; lo stesso incontro fra Kaan e Gönül  sembra di quelli decisi a tavolino dal fato, di cui al momento non riusciamo a prevederne gli esiti.
Tahir e Farah, dunque, erano destinati ad incontrarsi. Lei una donna formidabile: un medico che ha abbandonato il suo Paese, che vive in Turchia da clandestina dove fa le pulizie per mettere da parte i soldi necessari alle cure del figlio malato. Una donna di carattere, che non si perde d’animo anche quando tutto intorno sembra lì lì per crollare, determinata a salvare il figlio, per il quale sarebbe – è – disposta a fare di tutto. Una donna che non ha paura di mostrarsi com’è, che non ha paura di pronunciare il suo nome, Farah, nome persiano che nell’etimologia originaria araba significa gioia, felicità.  Una donna bella e fiera, con una forte personalità
Anche Tahir è un uomo bello, fiero e dalla forte personalità. Un uomo che sin da piccolo ha conosciuto il male come rimedio al dolore, Thair braccio destro di un uomo senza scrupoli, non è però un uomo senza scrupoli. Non raccoglie forse lui i vetri rotti del bicchiere lanciato con spocchia da Kaan per consegnarli con gentilezza nella mani di Farah? È quello il primo contatto verbale fra i due, Tahir avrebbe potuto andare semplicemente via, invece sceglie di piegarsi, raccogliere il bicchiere in frantumi, porgerlo a lei raccomandandosi di stare attenta a non tagliarsi. 
Tahir è lontano dal cliché classico del freddo e imperturbabile sicario, è il braccio destro di un criminale a cui è legato per un debito di vita, ma ha una sua identità ben precisa. A inizio serie dice infatti a Kaan: “Non pensare che io sia fuori gioco solo perché non mi chiamo Akıncı”, mettendo subito le cose in chiaro. Con lui e con noi che guardiamo.


Engin Akyürek ha scelto di dare a questo personaggio una sua particolare interpretazione, abbracciando, come nel grande cinema, la metamorfosi e la caratterizzazione, quali punti di forza di una recitazione che ha tutti i presupposti per rimanere indimenticabile. Engin sceglie di umanizzare la figura del mafioso cattivo e senza cuore: ironico quanto basta, volutamente marcatamente dinoccolato nei suoi movimenti, un po’ rapper metropolitanno un po’ boxeur per come veste e cammina, labbra perennemente corrucciate come il suo stesso sguardo, capo leggermente reclinato ora in avanti, ora di lato, col ticchio che ci fa sorridere di sistemarsi nervosamente il collo del dolcevita o di aggiustarsi la giacca prendendo con le mani entrambi i baveri. Engin Akyürek inventa un personaggio che non esiste, il cattivo che ancora non c’era, ed è proprio questa la sua incontestabile bravura. Tahir è un personaggio ai limiti, confonde e spiazza: non cattivissimo, non positivissimo, in lui riconosciamo la coesistenza di bene e male, i due elementi che dominano la vita umana in una continua lotta, Eros e Thanatos, amore e odio, vita e morte. E per questo risulta universale.
Engin con questo suo personaggio ai limiti ci accompagna in un percorso di conoscenza interiore, ci induce insieme a Tahir a fare i conti con ciò che ci portiamo dentro –  paure,  gioie, dolore, felicità-  in quel continuo processo di comprensione e decodificazione di ciò che siamo, che costituisce il nostro destino.  Tahir, però, non dà ricette, né impartisce giudizi: suggerisce di attraversare il bosco oscuro delle nostre vite per ritrovare la luce della ragione, di dare forma ai nostri fantasmi interiori per diventare noi stessi.

Il bosco, dunque. Non sorprenda, quindi, la scelta di ambientare nella foresta una delle scene clou del terzo episodio e, credo, di tutta la serie. Comprensibile, dunque, che il bosco sia stato, sia e sarà utilizzato in film e narrazioni seriali, per il suo valore altamente simbolico. Chi ha amato L’attimo fuggente, certamente ricorderà Neil Perry, lo studente affascinato dal prof Keating e dai suoi metodi. È nel bosco, di sera, che recita ai compagni: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto” (Verso tratto da “Walden, vita nei boschi” dello scrittore e poeta statunitense Henry David Thoreau). Il personale bosco dello studente era il rapporto conflittuale con il padre, con cui aveva difficoltà a comunicare:  grazie al prof Keating (indimenticabile Robbie Williams) si innamora del teatro e riuscirà a dire al padre che è proprio quella la carriera che vuol seguire.  Il genitore però lo iscriverà a un’accademia militare e per questo il ragazzo si suiciderà.

Il bosco, dunque, luogo di conoscenza di sé, per non scoprire un giorno di non aver vissuto.
Il bosco come metafora è un elemento ricorrente nella letteratura di tutti i tempi (la celebre selva oscura di Dante..) poiché luogo fortemente simbolico, contrapposto allo spazio “controllato” delle nostre vite, è il luogo dove tutto può accadere, dove le regole canoniche possono essere sovvertite. È il luogo delle contraddizioni, affascina e spaventa allo stesso tempo; per la psicoanalisi è il luogo legato all’inconscio, all’archetipo dell’ombra, dove la luce ha difficoltà a filtrare, ricco di allegorie e simboli, contesto perfetto per le fasi del ritrovamento di sé: smarrimento,  vagabondaggio,  ricerca,  incontro, ritrovamento,  ritorno a casa.

Dunque, non a caso è nel bosco che avviene l’imprevedibile: “Lascia che accada un miracolo” è la preghiera di Farah condannata a morte; Tahir commette l’errore di permettere a Farah di voltarsi: lei non è più di spalle, ma è di fronte e a lui, Tahir può quasi specchiarsi in Farah, immergersi nella coscienza di questa donna, fino quasi a vedere la propria.

Mi appassionano le similitudini con altri lavori solo quando sono costruttive e occasioni di arricchimento. Scenari e contesti si ripetono, eccome, nella storia della recitazione e delle dizi ancor di più, ma a fare la vera differenza fra i lavori è sempre la solidità della  storia e l’interpretazione degli attori.
Io ho trovato sublime il modo in cui Engin ha dato vita al conflitto interiore di Tahir. 
Tahir deve portare a compimento l’ordine ricevuto, oltretutto Farah non ha saputo cogliere l’opportunità che Tahir le aveva dato; disposto a far fuggire madre e figlio con passaporti falsi, ha però scoperto che Farah gli ha mentito. Ora non può più tornare indietro, Tahir deve ucciderla. Ma è in pieno conflitto interiore: lo si legge nel suo sguardo, nella sua andatura lenta, nella lentezza con cui estrae e impugna la pistola, tanto che la stessa Farah ne è stupita. Poi Farah si volta, gli sguardi si incrociano, Tahir è lì davanti a lei, ma non spara. Gli occhi di Tahir sembrano scavare in quelli di Farah, fino quasi a giungere all’interno del suo cuore, dove albergano dubbi, domande e soprattutto il disperato bisogno di continuare a vivere per prendersi cura di suo figlio.
Farah, mette insieme i tasselli, capisce che Aga ha disposto sì di curare suo figlio, ma ha anche ordinato di ucciderla. Farah intelligentemente mette Tahir davanti alle sue stesse azioni: “Però non lo hai fatto. Perché?”
Dolcezza e determinazione sono le armi di Farah, nella bellissima interpretazione di Demet Özdemir, che a Tahir, che adesso deve solo premere il grilletto, continua a ripetere: “Perché? Perché hai disubbidito al tuo capo?”.
Poi l’invito: “Tahir ascolta il tuo cuore, la  parte umana che è in te ti sta dicendo che stai commettendo un errore”; e poi la proposta: “Sono un medico, rendimi tua complice, sarò obbligata a tacere per sempre. Fallo per Kerimşha”.
La parola magica è proprio il nome di quel bambino, la cui storia non ha lasciato indifferente Thair.
Bella, bellissima, struggente, intensa, la scena del bagno nella vasca colma di ghiaccio, bravissimi sia Demet Özdemir che Rastin Paknahad: Demet nel dare vita con molto contegno e misura a questa madre dolce e disperata; il piccolo Rastin nell’interpretare magistralmente la malattia prossima alla morte, con gli occhi innamorati e innocenti di un bambino di quell’età.
È Kerimşha ad aver condotto inconsapevolmente Tahir e Farah in quel bosco della conoscenza di sé stessi dove scoprono – entrambi – aspetti mai immaginati. E’ Kerimşha, quel delizioso essere innocente, che fa compiere a Tahir e Farah un viaggio iniziatico dove tutto è possibile, dove tutto può addirittura mescolarsi, confondersi, fino a sfocare e fondere i contorni del bene e del male.
È indubbio, ormai, che le vite di Farah e Tahir erano destinate ad incrociarsi.  Intuiamo (o lo desideriamo) che nasca un amore fra queste due persone che apparentemente sembrano non essere fatte per stare insieme; intuiamo (o desideriamo) che possa esplodere quell’amore che diventa necessario proprio quando sembra impossibile.
Se un primo passo è stato compiuto, la strada è ancora impervia.
Perché per Tahir tenere in vita Farah si rivela molto più difficile che ucciderla. Almeno quanto tenere in vita sè stesso.

8 risposte a “Tahir, Engin Akyürek inventa il cattivo che non c’era”

  1. Quasi sempre le serie e i personaggi di EnginAkyürek ci mettono difronte domande a cui rispondere, le tue analisi Ros ci aiutano in questo a riflettere e dare risposte anche solo a noi stessi. I personaggi che E.A. interpreta non sono catalogabili in buoni o cattivi spesso E.A. fa coesistere in essi il bene e il male rendendoli più umani e reali perché nessun uomo va giudicato per il solo comportamento esteriore ma di ognuno va scoperta la vera natura ed EnginAkyürek in questo è magistrale.Il ruolo di Tahir se l’è cucito addosso, vuole apparire cattivo lo chiede anche a Farah ( Demet da brividi) : cosa vedi quando mi guardi? E lei : un mostro! L’ annuire di Tahir è chiaro c’è riuscito ad apparire cattivo ( a quanto pare anche EnginAkyürek visti i commenti social 😉🤣). Bellissima la tua riflessione sul bosco le varie citazioni e la simbologia : chi di noi dovendo fare una scelta non si sente perduto come in un bosco ? Come spesso avviene dal bosco non si esce da soli serve un incontro imprevisto casuale che può cambiarti la vita .

  2. Letta questa meraviglia di analisi che come sempre la trovo impeccabile. Thair un mafioso? Non tanto perché la sua umanità è nascosta. Lui è un cattivo per caso. Si è trovato forzatamente in un contesto non facile. La vita vissuta fino a quel momento sono certa non sarà il futuro. Può un incontro cambiare la tua vita? Si eccome. A me per esempio è cambiata quando ho incontrato Engin, un grande attore con una bellezza imperfetta ma persona perfetta. Grazie Ros ❤️

  3. Ho letto più volte che il ruolo di Tahir ricalcava i classici cliché del mafioso; beh siamo appena al secondo episodio ma per il momento non è ciò che vedo. I tanto vituperati vestiti e accessori, mi riferisco in particolare alla catena d’oro (che per me lui indossa con innata e rara eleganza) proprio non mi scandalizzano e disturbano nemmeno un po’…vado oltre. Con questa tua analisi Ros, hai colto nel segno: Engin ha rivoluzionato e ribaltato la figura del classico mafioso, umanizzandolo, senza enfasi e retorica. E come scrivi tu, le storie possono assomigliarsi per trama, costumi e ambientazioni, ( scene con la pistola, case viste in altre serie) ma alla fine è l’interpretazione dell’attore, l’anima e la “pietas”, che fa la differenza. E la differenza la fa Engin Akyürek.
    Grazie Ros 🙏

      1. Grazie Ros per questa tua precisa e dettagliata analisi❤️ Engin sempre con il suo tocco personale… ma devo dire che prevale molto l’ interpretazione superlativa di Demet, non credevo che riuscisse ad arrivare ad una recitazione di tale calibro; e’ notevole il duro lavoro che ha fatto, il fatto anche di essere quasi completamente senza trucco esalta ancora di piu il personaggio in cui e’ riuscita a calarsi…

      2. Ehilà Michal! anche io ho notato e apprezzato il viso acqua e sapone di Demet che esalta, come scrivi tu, il ruolo drammatico. E concordo anche nella sua recitazione, per me è stata una piacevole sorpresa.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: