Tahir, il potere delle parole, la speranza, il fallimento

Se c’è una cosa che mi piace moltissimo di Adım Farah è l’importanza attribuita dagli autori alla parola. La scelta delle parole per esprimersi dice molto di noi stessi, di ciò che siamo, di ciò che proviamo, dei nostri sogni, della nostra felicità o infelicità, della nostra vita.  Trovo che nella sceneggiatura le parole siano scelte sempre con molta accuratezza,  pur con la difficoltà di passare da una lingua a un’altra.
Questo 9 ° episodio si apre e si chiude allo stesso modo, con la centralità della parola e del suo potere nel determinare gli avvenimenti. La parola, le parole, hanno un potere smisurato. Un solo lemma può essere balsamo per le ferite o ferire in maniera lacerante.


Senza tetto, senza radici, orfano insomma, sono la lama in lettere che ha tagliato l’esistenza di Tahir riducendola a brandelli: köksüz (senza radici) è la parola che pronuncia Mehmet (proprio Mehmet?) nel violento faccia a faccia a casa di Tahir, che ha l’effetto di un detonatore, provocando di fatto lo sparo di Tahir a inizio episodio. È su quella parola che il dito di Tahir preme il grilletto. Mentre kimsesiz  (orfano, senza nessuno, abbandonato, senza tetto, randagio) è il termine che fa rima con Lekesiz nella cantilena che ha segnato con cattiveria la sua infanzia, odioso sottofondo alle torture fisiche subite in riformatorio per mano di Sado, che ora si trova lì davanti a lui,  tornando a provocarlo con le stesse identiche odiose parole di allora, che hanno il potere di far rivivere la stessa sofferenza  provata dal piccolo Tahir, con tutto il carico di rancore per quello che le parole all’epoca avevano provocato. Rancore che si unirà ad altro rancore per ciò che quelle parole e la sua reazione producono oggi: il ferimento di Kerimşah e Farah che lo caccia via.

Mehmet, artefice di questo incontro maledetto, è davvero l’agnello nero del bigliettino, nero, oscuro come la sua mamma lo chiamava da piccolo! In tutta sincerità, spero che all’origine di questa sua smisurata cattiveria non ci sia la gelosia di Mehmet per Farah. Ecco, spero tanto che la sceneggiatura non scivoli in un triangolo, poco plausibile per me, ma che l’ostinazione di Mehmet abbia invece radici più profonde e dolorose, in linea con lo spessore che questa storia ci ha regalato sinora. Anche se la cattiveria, la rabbia, la violenza con cui Mehmet si accanisce su Tahir sono inaccettabili! Forse è la rabbia per la diversa evoluzione di un destino che li ha voluto entrambi orfani ma che ha portato uno alla solitudine, l’altro invece alla “bella vita” e adesso addirittura all’amore? Forse, dunque, alla base di tutto questo suo rancore c’è l’invidia?
Mehmet è solo sin da piccolo, disposto a farsi prendere a freccette pur di giocare con qualcuno, pur di farsi accettare da qualcuno, pur di lenire quella solitudine che sembra accompagnarlo dalla nascita. Si nasce e si muore soli, scriveva Cesare Pavese….. Tahir è probabilmente lo specchio inconsapevole nel quale Mehmet ogni volta che ci guarda vede qualcosa che non gli piace: è lo stesso Tahir ad avergli sbattuto la sua solitudine in faccia (nell’episodio precedente) quando gli ha detto a muso duro che la sua vita di affetti è tutta una finzione, che non ha un padre, non ha una madre, non ha una sorella veri. Forse, anche qui, in un delirante gioco di specchi, Tahir guardando il commissario vede ciò che lui avrebbe tanto desiderato avere: una famiglia che fosse disposta a crescerlo ed amarlo. Non oso immaginare le rispettive reazioni quando scopriranno di essere fratelli. Di essere uno la famiglia dell’altro.

La forza delle parole, dunque.  Buddha diceva che “le parole hanno il potere di distruggere e di creare. Quando le parole sono sincere e gentili possono cambiare il mondo”. Quando sono intrise di odio e cattiveria, possono influenzare la vita e il modo di essere, di stare al mondo.  
Parola deriva dal latino parabola, “similitudine”, parabolé in greco dal verbo parabàllo, confrontare, mettere a fianco. Infatti, potremmo dire che la parola è un suono che affianca un oggetto, una situazione, per rappresentarla nel processo della comunicazione verbale. Scegliere una determinata parola, però, non è un compito meramente descrittivo, ma viene considerato un vero e proprio atto creativo. E dunque scegliendola non si descrive semplicemente la realtà, ma la si genera. Se dico di essere felice a qualcuno, non sto solo descrivendo un mio stato d’animo, ma sto influenzando la realtà intorno a me e con essa le persone che reagiranno di conseguenza alla mia affermazione. Discorso che vale naturalmente per i sentimenti opposti. Un’azione creativa formidabile, dunque, che impatta fortemente sulla realtà. Ecco perché è sempre importante scegliere bene l’elemento che è alla base della comunicazione, la parola.

Le parole che usano Farah e Tahir nei loro dialoghi rispecchiano esattamente questo. C’è una grande accuratezza nella costruzione di questi dialoghi, nei quali ogni volta sia Farah che Tahir nobilitano l’arte del dialogo. Il parlarsi per dirsi ciò che si pensa, che si prova, il parlarsi per provare a cambiare la realtà, per modificarla, per crearne una nuova. Ci sono in questo episodio tre momenti bellissimi di dialogo profondo e maturo fra Farah e Tahir: il primo è al locale, poi in auto e infine in ospedale.
Il locale di Tahir, la nuova attività che Tahir considera come un nuovo inizio, che rappresenta “la porta per entrare nel giardino della primavera”: non è bellissima questa espressione?
La primavera è Farah, ciò che potrebbe rappresentare una vita insieme a questa donna. Una vita da persone normali. Ma la frase più bella, oltre ai bellissimi versi della canzone iraniana in sottofondo (andiamo, corriamo a piedi nudi fino al bacio delle farfalle…) è quando Farah gli dice che quella vita non è per lei, che non è una ragazzina a cui dedicare i versi di una canzone. Non è più giovane e soprattutto lei è una madre, dalla cui vita, dalle cui scelte, dipende la vita del figlio, malato. Allora Tahir le dice di non chiudere le tende se c’è il sole, la invita a far entrare i raggi a inondare la stanza e illuminare il suo bellissimo viso.  Un’altra meravigliosa espressione.


Tahir capisce che Farah ha paura, la invita a non averne. La invita al gioco della felicità, che insieme potrebbero vivere, “Forse, un giorno”. Tahir ha bisogno di aggrapparsi ad una piccola speranza. Gli è sufficiente, per inseguire il suo sogno.
Ecco, Tahir ha compiuto un percorso formidabile, lo abbiamo conosciuto che sembrava – a differenza proprio di Farah – accettare l’ineluttabilità della vita. Ho ancora negli occhi la scena nella quale Farah gli medica le ferite e lui per la prima volta apre una fessura sul suo passato. “Sono ancora fermo su quel nome”, dice. Sul nome dello zio Riza che Tahir ha ucciso a 13 anni. Poi, prosegue: “La vita non ti dà la possibilità di scegliere, ti chiude le porte prima ancora che tu possa decidere che persona essere. Ne porta alcuni in paradiso, altri all’inferno. E tu lo accetterai. Qualunque cosa tu faccia, non importa quanto tu abbia ragione, sei già un assassino”. Sono le parole di chi è rassegnato appunto a essere ciò che il destino ha deciso che debba essere.


In un gioco delle parti invertite ora è Farah ad essere rassegnata, a rifiutare il sogno, a tenere lontana dalla sua vita la possibilità di amare ancora. Ora è Tahir a pensare che un altro modo c’è, un’altra vita c’è, glielo ha mostrato proprio Farah.  Farah rappresenta per Tahir la ragione per mettere a soqquadro la propria vita, per rimetterla in discussione, per provare a vivere come meriterebbe, è la primavera per uscire dall’inverno grigio della sua esistenza. Ma Farah ora ha paura. Se finora è stata Farah a prenderlo per mano e mostrargli il vero Tahir, ora tocca a Tahir. Ora non c’è più quel “cosa vuoi che ti dica Farah, cosa vuoi sentirmi dire?”, con cui Tahir provava a blindare il suo cuore. Ma il miracolo è compiuto, Tahir sa di amare questa donna. Più che dire Tahir ora deve agire, deve mostrare a Farah la strada che possono compiere insieme. Una strada senza crimine, senza illegalità, senza bugie, senza falsità.  Tahir è sincero. Tahir con Farah non mente, non hai mai mentito. Ed è questa la forza di questo rapporto. Tahir si è aperto completamente, senza infingimenti: il suo presente, il suo passato, la sua natura, Tahir non può che mettere sul piatto tutto sé stesso.  E il suo impegno. E Farah lo apprezza.
In auto lei gli darà il dossier di Mehmet, dicendogli però che nella vita non c’è solo una verità e che è disposta ad ascoltare le sue parole. Gli dice, anche, di sapere chi è il vero Tahir. Parole che generano reazioni.

“Ti conosco, Tahir”
“Mi conosci?”
“Meglio di quanto ti conosca tu”
“Non è una cosa cattiva, vero?”, risponde Tahir con l’ironia che serve a stemperare l’emozione.

Tahir però le prende la mano. Tahir è incredulo e felice. Finalmente qualcuno che va oltre la corazza che una vita che non ha scelto gli ha costruito intorno. Da lì si può ripartire. Tahir lo sa. Ora ha più fiducia.
Ma non sa che il destino, che ora ha le fattezze e il nome di un commissario perfido e ossessionato, lo inchioderà di nuovo ai piedi del suo passato.

Lo farà in ospedale, il luogo che è simbolo della rinascita per Farah, Kerimşah e Tahir, il luogo della speranza, del nuovo inizio, della cura, per il piccolo ma anche per Tahir: non a caso è qui che racconta il suo passato a Farah, è qui che si libera del pesantissimo fardello di una vita.

Toccante il racconto di Tahir, magistrale l’interpretazione di Engin Akyürek, è tutto perfetto: volto, voce, postura, pause, cambi di ritmo della voce. Engin vive il dolore di quest’uomo la cui infanzia non è stata infanzia, riuscendo a farlo vivere anche a noi. E quelle lacrime che con immensa credibilità rigano il volto di Engin, nello stesso preciso istante rigano anche il volto di noi che guardiamo con la stessa empatia di Engin Akyürek.  È impossibile rimanere impassibili. È impossibile non provare il dolore di tanta ingiustizia, di tanto accanimento, di tanta sofferenza. Le parole poi… “Il corpo si abitua, ma l’anima si ribella sempre” : un pugno nello stomaco. Ed è un avvertimento su ciò che sta per accadere. Il dolore dell’anima non può guarire…è lì pronto a sgorgare da quelle ferite sempre aperte, ancora e ancora.  Basta la scintilla giusta.
E dunque l’ospedale da luogo della speranza e di rinascita si trasforma nel patibolo, nel luogo dell’esecuzione, nel luogo dove una sentenza senza appello prende forma: per quanto tu voglia sforzarti di essere diverso, di vivere una vita senza crimine, non ne avrai mai l’opportunità.

Con Mehmet e la sua cattiveria si apre e si chiude, dunque, questo episodio: potente il grido di libertà di Tahir “Voglio vivere una vita da uomo normale!” urlato con la disperazione di chi sa che quell’uomo davanti a lui in quel momento può privarlo per sempre di questo sogno, se cadesse schiavo dell’istinto di ucciderlo. Urla con disperazione Tahir, quasi in una sorta di premonizione inconsapevole: quell’uomo, quello stesso uomo, orfano come lui, fratello non ancora rivelato, quello stesso uomo a fine episodio lo priverà della speranza. La speranza di poter condurre una vita diversa. La speranza di vivere un grande amore. La speranza di una famiglia vera. La speranza di sentimenti veri e autentici come non gli era mai successo. Una speranza che si rompe come il casco del piccolo Kerim trafitto dal protettile di Sado.  Potente la scena in cui Farah lo allontana, con la stessa macchina da presa che si allontana da Tahir, che ci appare sempre più lontano, ci appare di nuovo in tutta la sua solitudine.
È solo. Privo di speranza.

La speranza, però, appartiene a tutti gli uomini. Deve poter appartenere a tutti gli uomini! È il motore che muove l’esistenza, benzina che alimenta il pensiero, molla che spinge la ragione a mettere da parte impulso e istinto per realizzare un sogno, un’ambizione, un progetto. Il progetto che diviene ragione di vita ma che qui si scontra con la crudeltà del destino, che ha il viso di Mehmet e le cicatrici del killer Sado: è il passato che torna. Il passato da cui non si può scappare. E infatti Tahir chiamerà il locale proprio Lekesiz, in una sorta di rassegnazione all’ineluttabilità del destino, contraddicendo il suo stesso desiderio di volerlo chiamare diversamente per simboleggiare un nuovo inizio.  E invece, di nuovo un passo indietro, anzi mille passi indietro! Tahir ancora una volta è costretto a richiudere i battenti che aveva coraggiosamente spalancato.
La sua unica possibilità di riscatto erano Farah e Kerim, a cui però ha fatto del male. Proprio a loro, le uniche persone che avrebbe voluto proteggere dalle brutture della vita. Le uniche persone per cui valesse la pena mettere sotto sopra la propria esistenza. Le uniche due persone che avrebbe potuto amare. Le uniche persone che ama. E che ora deve mettere al riparo da sé stesso.

Vedremo dove ci condurranno Tahir e Farah. Vedremo se a trionfare sarà la desolazione, la constatazione della impossibilità della felicità e la conseguente rassegnazione.  Se, dunque, come direbbe Cesare Pavese, “verrà la morte e avrà i tuoi occhi” poiché non c’è riscatto, non c’è speranza, non c’è amore e dunque l’orizzonte di Tahir si chiuderà fino a diventare una stretta fessura, attraverso cui guardare la morte negli occhi. O se a vincere invece sarà una visione positiva, costruttiva e dunque per dirla con Paolo Coelho “L’ora più buia è quella che precede il sorgere del sole”. Se si riuscirà insomma a vincere la rassegnazione dei vinti con il coraggio di riscoprirsi vivi prendendo la rincorsa per spiccare il volo e liberarsi finalmente della gabbia del passato.
Tahir ha dimostrato di voler cambiare: può bastare il desiderio per avere la rivincita sul proprio passato? Può bastare la forza dell’amore? O siamo destinati a rimanere schiacciati dalla nostra storia personale?
Farah ha alzato un muro, Tahir rispetterà questa sua decisione. Perché l’ultima cosa che farebbe sarebbe appunto fare loro del male. Tahir ha mostrato a Farah una possibile via: la guarigione di Kerim, la vita restituita a Farah con il suo vero lavoro, loro due insieme, come persone normali. È un lusso per chi ha vissuto una vita da criminale, come sostiene Mehmet? O tutti hanno diritto ad una seconda chance?
Toccherà a Farah, adesso, fare un passo, più di uno, verso Tahir.


Sullo sfondo di questo dilemma, della storia appassionante fra queste due vite che si sono incrociate mostrandoci la bellezza struggente di poter essere uno cura dell’altro, rimane il giallo. Abbiamo avuto la certezza di chi ha compiuto l’omicidio. Rimane il mistero del mandante. Rimango ancora convinta della mia idea, non avendo trovato nell’episodio “prove” alternative. Per me  il mandante rimane Orhan.
Certo, però, Tahir ha detto a Mehmet che ciò che Alp riferiva al commissario era concordato con loro. C’è da supporre che dunque Tahir sapesse del bigliettino? O anche Tahir ne era all’oscuro? Attendiamo ulteriori elementi.
La chiave, però , rimane sempre il bigliettino. Ylias, infatti, alla scoperta del pezzo di carta con quella scritta è disperatamente preoccupato. Non a caso.
Mehmet, deluso dalla scoperta della doppia vita di Alp, getta la spugna. Ha consegnato tutto il faldone in commissariato. Compreso il bigliettino, appunto. Nelle mani di chi andrà ora la scritta “agnello nero, agnello bianco”?
C’è solo una persona, però, oltre Mehmet, che ne è a conoscenza. Ed è Farah. Toccherà a lei fare chiarezza sul passato di Mehmet e Tahir?
Come sempre, non ci resta che aspettare il mercoledì.

10 risposte a “Tahir, il potere delle parole, la speranza, il fallimento”

  1. Le parole sono come pietre. Ti possono ferire nel tuo profondo e segnarti per sempre. Può succedere anche a noi nella vita reale, associare una parola a un doloroso ricordo. Terribile se succede ad un bambino che si porta poi per tutta la vita adulta quel fardello. È quanto è successo a Tahir che ha trovato però le parole giuste per tendere a quella primavera, a una seconda possibilità che a tutti dovrebbe essere concessa. Grazie Ros per aver sottolineato il ruolo fondamentale delle parole in questa serie che Engin ci ha fatto amare.

  2. Bellissimo Ros, perfetta come al solito.
    l dialoghi in questa serie sono di estremo valore, pensati e ben studiati, non buttati lì a caso. Come non sottoscrivere in pieno quello che racconti sul potere delle parole! Perdona una mia digressione con quella che per me, più che una canzone è una poesia.
    “Le mie parole sono sassi,
    precisi e aguzzi pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese;
    Sono nuvole sospese, gonfie di sottintesi
    che accendono negli occhi infinite attese;
    Sono gocce preziose, indimenticate,
    a lungo spasimate, poi centellinate;
    Sono frecce infuocate che il vento e la fortuna sanno inidrizzare;
    Sono lampi dentro a un pozzo cupo e abbandonato,
    un viso sordo e muto che l’amore ha illuminato;
    sono foglie cadute, promesse dovute
    che il tempo ti perdoni per averle pronunciate;
    Sono note stonate,
    su un foglio capitate per sbaglio, tracciate e poi dimenticate,
    le parole che ho detto, oppure ho creduto di dire, lo ammetto.
    Strette tra i denti, passate e ricorrenti,
    inaspettate, sentite o sognate.
    Le mie parole son capriole, palle di neve al sole,
    razzi incandescenti prima di scoppiare;
    Sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare,
    piccoli divieti a cui disobbedire;
    Sono andate a dormire
    sorprese da un dolore profondo che non mi riesce di spiegare,
    fanno come gli pare, si perdono al buio per poi ritornare;
    Sono notti inteminate, scoppi di risate,
    facce sovraesposte per il troppo sole;
    Sono questo le parole, dolci o rancorose,
    piene di rispetto oppure indecorose;
    Sono mio padre e mia madre,
    un bacio a testa prima del sonno, un altro prima di partire;
    Le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire
    Strette tra i denti, risparmiano i presenti,
    immaginate, sentite o sognate,
    spade fendenti,
    al buio sospirate,
    perdonate, da un palmo soffiate.
    ( Samuele Bersani)

    1. Uh Ale adoro Bersani! Mi piace molto proprio per lo stile dei suoi testi….questa canzone è stupenda, sì è una poesia in tutti i sensi. A me fa venire i brividi e se sono in giornata “giusta” potrebbe scendere anche una lacrimuccia, perchè muove parecchie cose….. Ale ti ringrazio molto per questo tuo bellissimo regalo

  3. Un’analisi come sempre perfetta, Ros! Non vedevo l’ora di leggerla.
    Dico la mia su Mehmet: non credo sia geloso di Farah o invidioso di Thair ma, nella sua testa malata, reputa una questione di giustizia…un malavitoso non può avere una bella vita, ma deve pagare tutte le sue malefatte!
    Altra questione che mi è rimasta impressa nella mente: rimane irrisolto, oltre al giallo del mandante, il tentato omicidio di Aga. Chi è stato? Pensavamo al nipote ma non è emerso più nulla.
    In attesa di vedere la puntata sottotitolata, per poter piangere ancora un po’, ti ringrazio tantissimo perché ci fai sempre rivivere le scene con le tue accurate analisi.

    1. Grazie Ornella! Su Mehmet,se anche è una forma di giustizia la sua credo che il suo comportamento ossessivo abbia radici patologiche che affondano in qualcos’altro, è veramente troppo! Su Aga e il tentato omicidio non è emerso ancora nulla, ma magari è una di quelle tessere che improvvisamente andranno al loro posto al momento giusto, io rimango convinta che dietro ci sia Bekir…ma magari mi sbaglio. Vedremo…..aspettiamo il mercoledì! 🙂

  4. Splendida disamina come tuo solito Ros ❤️ puntata che a me ha lasciato un po’ interdetta per la piega che gli sceneggiatori stanno facendo prendere a Memhet. Troppa cattiveria dettata da gelosia verso Tahir e lo dice pure che non permetterà che lui possa vivere una vita normale e serena. Non posso accettare che un commissario della sua esperienza e dei suoi valori possa far uscire un essere come Sado e portarlo poi in ospedale dove sa benissimo che c è pure Kerim.
    La scena in ospedale dove racconta ciò che ha subito in riformatorio ci restituisce a mio parere Engin, spogliato dalla posa in po’ pesante tenuta per interpretare Tahir, con i suoi meravigliosi occhi le cui lacrime sono state le nostre💙💙 Questo è l Engin che amo e che dimostra ancora una volta tutta la sua immensa bravura.

    1. In effetti il comportamento di Mehmet è davvero to much per un tutore della giustizia….. I tuoi dubbi sono i miei, vedremo di capire se è una storia di speranza o di condanna senza appello. Engin meravigliosamente bravo, in quella scena c’è l’essenza di Tahir che si spoglia della maschera che è costretto a indossare, per essere finalmente sè stesso.

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